KANT

 



Kant scrisse la Critica della ragion pura dopo oltre trentacinque anni di studio, al termine di una lunga elaborazione, ma stese l’opera di getto, in pochi mesi, a dispetto della grandissima mole da cui è costituita.      

In quest’opera il filosofo si è posto l’arduo compito di analizzare criticamente i fondamenti del sapere, che a quel tempo erano esemplificabili nella scienza e nella metafisica. 

Mentre per la scienza (matematica e fisica) i risultati conseguiti non facevano porre dubbi sulla loro validità (Kant non a caso era “figlio” di Galileo e Newton), la metafisica appariva come un sapere incerto, vittima di continue contese tra pensatori e mai ancorata a dei presupposti stabili. Infatti, per Kant: «Poiché queste scienze (la matematica e la fisica) sono effettivamente date, conviene di certo domandarsi come siano possibili; infatti che esse siano possibili è dimostrato dalla loro realtà. Quanto alla metafisica, il suo cattivo andamento… fa dubitare chiunque, a ragione, della sua possibilità».      

Kant si trovava a dover giustificare il valore, a chiedersi come fosse possibile la scienza, messa in discussione da filosofi come Hume (che si riteneva scettico sui suoi presupposti), e a chiedersi se esistessero delle condizioni che potessero elevare la metafisica a scienza. Sono questi, dunque, gli interrogativi fondamentali della Critica.  

Per rispondere a queste domande Kant parte dall’analisi della matematica e della fisica e si chiede su cosa si fondino. Arriva alla conclusione che, alla base della scienza, risiedono dei principi assoluti e immutabili: i giudizi sintetici a priori. Ma cosa sono questi giudizi? Secondo Kant:  

un giudizio si ha quando connettiamo un predicato ad un soggetto;

è sintetico quando il predicato aggiunge qualcosa di nuovo al soggetto;

Affermare che 3+6=9, che la somma interna degli angoli di un triangolo è 180° (per quanto riguarda la matematica), o che un evento presuppone sempre una causa (come nel caso della fisica), significa esprimere un giudizio sintetico a priori in quanto non è stato ricavato dal ricorso ad uno dei nostri cinque sensi (vista, udito, tatto ecc.), non è frutto di generalizzazioni dell’esperienza.  

Tutti i giudizi scientifici per uscire dal loro carattere incerto, relativo, si basano sui giudizi sintetici a priori.

 Scrive Kant «Il vero e proprio problema della ragion pura è… contenuto nella domanda: come sono possibili giudizi sintetici a priori?».  

La risposta offerta dal filosofo è un rivoluzionario modo di intendere la conoscenza: quest’ultima si basa sempre su una sintesi di forma e materia. Mentre per materia intende i dati caotici dell’esperienza sensibile (cioè ricavata dai sensi), per forma intende le modalità fisse attraverso cui conosciamo (cioè ordiniamo i dati dell’esperienza) e a breve scopriremo quali sono nello specifico. Le forme della conoscenza non derivano, quindi, dall’esperienza (sono a priori) ma non sono applicabili al di là dell’esperienza.

Apparentemente sembrerebbero concetti davvero astrusi ma risultano ben comprensibili facendo riferimento al celebre esempio degli occhiali: le forme a priori sono simili a delle lenti colorate attraverso cui “filtriamo” o assimiliamo la realtà. La nostra percezione del mondo risulterà sempre caratterizzata e condizionata dal colore di quelle lenti, comuni a tutti e valide in qualunque circostanza. Gli oggetti del mondo esterno saranno dunque oggetti per noi unicamente nella modalità attraverso cui li percepiamo. I giudizi sintetici a priori delle scienze saranno possibili, infatti, grazie alle stesse forme a priori (che conferiranno loro universalità e necessità) e si specificheranno e affiancheranno al materiale tratto dall’esperienza.

Riassumendo: Scienza = Esperienza + Giudizi sintetici a priori (basati sulle forme a priori)

Questo modo di concepire scienza e forme della conoscenza porta a due conseguenze di grande valore:   

da una parte, per Kant, ha senso parlare unicamente di fenomeno: cioè della realtà quale ci appare tramite le forme a priori. Il noumeno, la cosa in sé, risulta inconoscibile in quanto è indipendente dalle forme a priori attraverso cui conosciamo.

dall’altra, Kant asserirà di aver compiuto una vera e propria rivoluzione copernicana: così come Copernico aveva ribaltato il rapporto tra la Terra e il Sole, lui stesso aveva cambiato il rapporto tra soggetto e oggetto. L’uomo non è più spettatore passivo dinanzi alla natura ma imprime ad essa l’ordine e le leggi da lui stabilite. Scrisse a tal proposito il filosofo Karl Popper: «Il cosmo reca l’impronta della nostra mente».

Risulta a questo punto comprensibile il titolo dell’opera: un’analisi delle possibilità o impossibilità conoscitive dell’uomo (ragione intesa in senso generale) in virtù dei suoi elementi puri (o a priori).  È la ragione stessa ad essere al tempo stesso giudice e giudicato: è ciò che mette in atto la critica ma è anche lo stesso soggetto della critica.

Come abbiamo già detto la Critica è un’opera molto lunga e strutturata, divisa in due parti, di cui quella principale è la Dottrina degli elementi che studia proprio le forme a priori delle facoltà conoscitive. A sua volta questa risulta divisa in:

estetica trascendentale che studia le forme a priori della sensibilità su cui si fonda la matematica;

logica trascendentale che studia le forme a priori del pensiero, a sua volta divisa in:

analitica trascendentale che studia le forme a priori dell’intelletto su cui si fonda la fisica;

dialettica trascendentale che studia le forme a priori della ragione su cui si fonda la metafisica.

Secondo Kanti teoremi e i postulati della geometria (il fatto che il triangolo abbia tre lati) o dell’aritmetica (la proprietà dell’addizione ad esempio) sono validi universalmente e necessariamente proprio in quanto presuppongono lo spazio e il tempo.

Chi ci dice che i risultati della matematica siano validi anche per la realtà fenomenica? La matematica è valida, feconda, non smentibile dall’esperienza proprio perché quest’ultima, intuita sempre nello spazio e nel tempo, si basa di per sé su dei presupposti matematici.

Nella prima parte della Logica trascendentale Kant passa alla trattazione della seconda facoltà conoscitiva: l’intelletto e le sue forme a priori. 


Se le intuizioni sensibili avevano una natura passiva, l’intelletto opera in modo attivo sui dati provenienti dalle intuizioni sensibili, ordinandoli e unificandoli sotto una rappresentazione comune: il concetto. Quest’ultimo può essere di due tipi: empirico se ricavato dall’elaborazione del materiale proveniente dai sensi (per esempio dalla visione di tanti uomini particolari si elabora il concetto di “uomo” che generalizza alcune caratteristiche comuni) o puro, detto anche categoria. Quest’ultimo esiste a priori nell’intelletto e corrisponde ad una casella, una “scatola vuota” in cui unifichiamo i dati arrivati all’intelletto dopo che sono stati filtrati dalle forme a priori della sensibilità (spazio e tempo). Le categorie sono le “funzioni”, gli strumenti con cui lavora l’intelletto, i concetti basilari della mente.  


Per Kant le categorie sono 12 e corrispondono a tutte le modalità con cui è possibile esprimere dei giudizi (in quando pensare, per il filosofo, equivale a giudicare): esisteranno categorie della quantità (si penserà sempre ad una cosa, a più cose o all’insieme delle cose), della qualità, della relazione e della modalità. 

Perché le categorie valgono anche per gli oggetti? La parte più impegnativa dell’Analitica è quella di spiegare come mai le categorie, forme a priori del nostro intelletto attraverso cui pensiamo la realtà, valgano anche per la realtà stessa. Si tratta di dimostrare la legittimità dell’uso delle categorie, in che modo la realtà pensata non sia un’illusione. A tal proposito Kant parla di un'identica struttura mentale comune a tutti gli uomini, il cosiddetto “io penso”. Poiché, infatti, ogni pensiero presuppone l’ “io penso” e quest’ultimo pensa tramite le categorie, tutti gli oggetti pensati presupporranno le categorie. Per dirla in parole semplici: ogni dato sensibile è già inquadrato nel pensiero; è un qualcosa di inevitabile che accade in ogni intelletto umano. La realtà fenomenica dovrà dunque adeguarsi alle forme a priori del nostro intelletto.

In questo modo, a partire dalle categorie, per Kant l’intelletto è in grado di formulare dei principi basilari, delle leggi a priori che regolano la natura in generale e che costituiscono il nerbo della fisica. Le leggi particolari si costruiscono, dunque, sulla base delle leggi a priori calate nell’esperienza. L’io è, per usare un'espressione di Kant, “legislatore della natura”: «l’intelletto non attinge le sue leggi (a priori) dalla natura, ma le prescrive ad essa». La scienza è applicabile alla realtà poiché le leggi del nostro pensare sono le stesse che reggono la realtà.   

Mentre nelle precedenti due parti dell’opera Kant ha analizzato in che modo è possibile la conoscenza scientifica, nella Dialettica il filosofo risponde all’ultimo interrogativo: se sia possibile la metafisica come scienza. Quest’ultima, a suo dire, è un prodotto della ragione. Ma cos’è questa ragione? È l’intelletto stesso, la nostra facoltà di pensare attraverso categorie unificando i dati sensibili che, in un atto di presunzione pretende di poter prescindere dall’esperienza. Come abbiamo più volte detto in precedenza, la conoscenza è sempre una sintesi di forma e materia e la realtà che conosciamo è quella fenomenica. Ma la ragione pretende di superare i limiti dettati dall’esperienza e di procedere verso una spiegazione globale di tutto ciò che esiste. In che modo lo fa? Ricorrendo a tre idee: anima, mondo, Dio.  

Kant procederà dunque a spiegare i ragionamenti fallaci della metafisica, le cosiddette antinomie (i conflitti della ragione con se stessa) atte a dimostrare la realtà di fatto di questo idee. Anima, mondo e Dio sono infatti delle disposizioni naturali, delle esigenze di unificazione dell’esperienza che non hanno, né potranno mai avere, uno statuto di realtà, in quanto non ne facciamo esperienza. 

Appurato che la metafisica tradizionale non possa considerarsi una scienza in quanto cerca di avventurarsi oltre l’esperienza, a che servono le idee? Secondo Kant hanno una funzione regolativa: guidano l’uomo nella ricerca naturale, spingendolo a cercare una sempre più completa unità ed estensione in merito alle sue conoscenze. L’idea di mondo, ad esempio, mi spingerà ad intendere i fenomeni come se tutti fossero, in qualche modo, ordinati e uniti tra di loro in un rapporto di causa-effetto. Le idee servono dunque a conoscere anche se non possono essere conosciute. 


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